Metto qui il testo integrale dell'intervista che Musica Jazz mi ha fatto su Voyager 2011.
ricordo che, chi volesse il disco, può trovarlo su itunes, amazon o chiederlo direttamente a me!
- Come è nato Scaramanouche? Come vi siete conosciuti?
Scaramanouche
nasce a Roma nel 2005. La prima formazione vedeva Leonardo Spinedi,
violino, Alessandro Russo e Giacomo Dell'Aquila, chitarre, e me,
contrabbasso e voce. Nel 2007, Egidio Marchitelli prese il posto di
Dell'Aquila e, nel 2008, uscì il primo disco, “Swing da camera”,
esaurito in breve. Dai primi mesi del 2010, la formazione attuale:
Augusto Creni ed Egidio Marchitelli chitarre, Stefano Lenci,
tastiere, Lucio Villani contrabbasso e voce.
- Perché questo nome, qual è il significato che hai voluto dare?
Mi
piace giocare con le parole e coniugare l'avventuroso Scaramouche al
Manouche (ceppo etnico nomade cui apparteneva Django Reinhardt che da
il nome al genere) faceva sorridere e suonava bene.
L’idea
è quella di seguire le orme di Django: secondo il tuo parere, qual è
il valore aggiunto di Django nella musica, nell’evoluzione della
musica?
La
storia di Django è affascinante. L'ho anche raccontata in un piccolo
racconto a fumetti. Django ha dato tanto a tanti, i vari ceppi etnici
(Rom, Sinti, Manouche, etc.) lo vedono, a ragion veduta, come un eroe
e motivo di orgoglio. E' la storia di una grande musicalità, un
incidente, una grande volontà per suonare, facendo fluire la musica
attraverso il suo corpo menomato, un incontro fortunato con Stephane
Grappelli, una fortuna nel venire scoperto dal mondo, un'antitesi
della celebrità. Sapeva sparire benissimo. La storia della chitarra,
grazie a lui, ha un capitolo a parte. Tutti noi, con i suoi dischi,
siamo ricchissimi.
- Cosa c’entrano Zappa, Pink Floyd, la musica classica, Johnny Cash, i Sex Pistols con la musica manouche?
La
musica classica, per me, è uno dei più grandi patrimoni che
abbiamo. Gli Scaramanouche ne fruiscono quotidianamente e con
soddisfazione. Django era un grande estimatore di Debussy, Barrios,
Kreisler, Bach, Tchaikovski e chissà di quanti altri (da ricordare
le incisioni/adattamenti di: “Claire de lune” di Debussy, la
Serenata per archi di Tchaikovski e, con Grappelli ed Eddie South, il
concerto per due violini di Bach). AC/DC, Sex Pistols e Iggy Pop, ci
piacciono tanto! Johnny Cash eccezionale, soprattutto negli “American
Recordings”. Frank Zappa (citato in “Erase/Rewind” con “Louie
Louie” e alla fine di “Anarchy in the UK” con il tema di Joe's
Garage) è un nostro ispiratore. Siamo tutti Zappiani con orgoglio.
Per tornare alla tua domanda, non so cosa c'entrino con la musica
manouche, ma, con noi che suoniamo, c'entrano molto.
- A tal proposito, i brani come li avete scelti?
Credo
di essere io il “colpevole” della scelta e della selezione. Mi
sembrava una buona idea metterci a nostro agio con musiche note.
L'idea del contrasto di arrangiamenti/citazioni/interpreti ha fatto
il resto, gli altri si sono divertiti e ognuno ha messo delle idee,
ho fatto il possibile perché sul disco fosse scritto accuratamente
chi fa cosa. Primo brano: “Blues en mineur”, ultimo “Anouman”,
composizioni opposte di Django Reinhardt. In mezzo, la scaletta che
avevo in mente. Pink Floyd e J. S. Bach, Iggy Pop e mazurche bretoni,
Fritz Kreisler e Lou Reed, etc... Con il dovuto rispetto, ovviamente.
- Per Voyager 2011 vi siete affidati a una campagna di crowdfunding che è andata bene. Come l’avete organizzata e quali sono stati gli steps più significativi?
Avevo
prodotto il disco nella sua totalità ma, proprio sul più bello, non
avevo soldi per master e stampa. Per citare John Belushi: “avevo
una gomma a terra, la tintoria non mi aveva portato il Tight,
l'inondazione, le CAVALLETTE!!!”. Lasciarlo nel cassetto era
impensabile, quindi: mi sono iscritto su indie go-go, sono rientrato
su facebook, ho spammato come un corsaro, ho ritrovato molti
sostenitori, ne ho incontrati di nuovi e alla fine ho convinto Renzo
Poignant di Felmay, l'etichetta con cui collaboro, a stamparlo e a
distribuirlo, alternativa succosa rispetto all'autoproduzione.
Infatti ora ne stiamo parlando qui. Mi sembra un successo!
- A proposito: perché Voyager 2011?
Il
Voyager è una sonda spedita nello spazio. Dentro ci sono, racchiuse
in un disco, varie musiche del mondo, considerate un messaggio
universale rappresentante il genere umano. C'è un quartetto di
Beethoven, Johnny B. Goode di Chuck Berry, un Gamelan di Java, J.S.
Bach, rappresentato da Glenn Gould, Arthur Grumiaux e Karl Richter,
Louis Armstrong e molte altre cose. Una Wunderkammer spaziale. La
sonda ci metterà 10.000 anni prima di arrivare in presenza di una
stella, quindi le possibiità che incontri qualcuno o qualcosa sono
dichiaratamente remote. Il nostro Voyager era la mia necessità di
fare una foto a quattro musicisti così diversi e così in armonia
tra loro, era prima di tutto una necessità personale. Sicuramente,
tra 10.000 anni avrò altro da fare. Il nostro disco ha per ospiti
tre cantanti bravissimi. Marta Capponi, sensibile e potente, Andrea
Belli, traduttore e interprete di George Brassens (cui si deve anche
la traduzione de “I Lillà”) e Stefano Malatesta, corista di
eccezione.
- Un quartetto manouche con il piano fender e le tastiere: un’idea geniale, ma che potrebbe far storcere il naso ai puristi. Immagino che di accuse in tal senso ne avrai/avrete sentite parecchie: cosa rispondi ai “talebani”?
Chi
sono i puristi? Persone che vogliono un quartetto/quintetto che suoni
come dischi di 60 anni fa? Riusciranno queste persone con questa
volontà e quei riferimenti ad ascoltare queli che hanno di fronte?
Per quanto riguarda, poi, il concetto di musica manouche “pura”,
secondo me siamo di fronte ad un ossimoro. Ovvero, per definizione
nasce come incrocio. Django fuse quello che sapeva fare per
tradizione, alla musica classica (in fondo, Debussy muore quando
Django ha 8 anni) e al jazz in voga in Europa in quel periodo. Se
vogliamo parlare di “puri”, possiamo pensare ai manouche, coloro
i quali, sulle orme della tradizione, suonano la loro musica, come
l'hanno sentita in famiglia e dai vari ispiratori tipo “Tchan
Tchou” Vidal, Baro e Matelo Ferret, la famiglia Reinhardt etc...
Noi, che abbiamo tutta un'altra storia, abbiamo unito quello che ci
piaceva di Django e delle varie musiche preesistenti del centro
europa, a quello che avevamo studiato prima. Abbiamo aggiunto colori
alla tavolozza di quello che sapevamo e volevamo fare.
La
fortuna per me, è stata collaborare con tre musicisti così bravi e
diversi, ognuno con una definita personalità musicale. Augusto
Creni, con passato di studi classici e studioso di Django Reinhardt
(ha trascritto gran parte dei soli di Django e i suoi video su
youtube sono famosi, peccato non si veda la faccia, la sua è una
delle magliette più note tra gli appassionati di chitarra). Egidio
Marchitelli, eclettico e prezioso musicista, specialista nel capire
linguaggi e atmosfere, recentemente con Fabrizio Bosso. Stefano
Lenci, maestro di polifonia, un legante notevole, come dimostra con
il suo Fender Rhodes, strumento che unisce bene gli altri tre. Il
pianoforte era previsto, ma le prove ci hanno convinto ad usarlo
solamente per un paio di sovraincisioni. Poi, imprevisto è arrivato
anche un Hammond. Le caratteristica che ci ha accomunano sono
dinamica e ascolto. Per tornare ai “puristi”, tengano pure il
naso dritto. Tutte le volte che abbiamo suonato in presenza di
musicisti, abbiamo poi conversato di musica. Abbiamo solo studiato,
non inganniamo nessuno.
- Quali sono le reazione del pubblico? E, inoltre, pensate di rivolgervi a un pubblico in particolare (target, età...)?
Se
dicessi “lasciate che i pargoli vengano a me”, sarebbe un plagio
e mi prenderebbero per un pedofilo, come cambiano i tempi. Ci
rivolgiamo a chiunque ci voglia ascoltare, di solito si divertono.
- Sei anche un abile, bravissimo disegnatore e illustratore. Quanto sono vicine le due arti a tuo avviso? (ovviamente parlo di musica e disegno)
Grazie
per le belle parole. Per quanto mi riguarda, coltivo le due
discipline fin da piccolo. Non parlerei di vicinanza, ma di
convivenza, studio ed equilibrio. L'importante, per me, è produrre
continuamente. Siano disegni o registrazioni. Come disegnatore sono
spesso al lavoro e sfrutto molto e con soddisfazione, momenti morti
dei tour musicali e day-off, girando con quaderni e penne, mani
sporche di inchiostro a prendere appunti e a fare ritratti di musici.
Molto spesso, poi, questi diventano copertine di dischi o manifesti,
come nel caso dei recenti dischi di Fabrizio Bosso (uscito per Verve)
o del grande bluesman Marco Pandolfi. Per Scaramanouche, però, non
mi sono mai occupato dell'aspetto visivo.
Fin dal principio, l’intera immagine disegnata, dai dischi, ai
manifesti a serigrafie in tiratura limitata, è stata curata dal
melomane Daniele Catalli. Trovate il suo splendido lavoro sul sito
www.piripiriatelier.org
- Tu sei anche il leader di un altro gruppo di particolare impatto: l’Orchestra Cocò. Qual è la tua idea della musica e, in particolare, del jazz?
Orchestra
Cocò (www.orchestracoco.it)
è un'oligarchia, non ha, quindi, un leader vero e proprio. E'
prodotto da Felmay con all'attivo due dischi, “Passepartout”
(2012) e “Hot Club” (2013). Li sono in compagnia dei chitarristi
Augusto Creni e Marco Maturo. Ci piace esplorare le canzoni,
riprendendo l'idea del quintetto Ritmico di Luciano Zuccheri con il
suo modo unico di accompagnare. In sintesi, un'orchestra di tre
persone. La musica è una disciplina che mi mette molta tranquillità,
in quanto infinita. Mi piace l'idea di dare un contributo, studiare,
imparare e fare le cose al meglio. La musica classica, con interpreti
meravigliosi come Glenn Gould, Claudio Abbado e Jascha Heifetz, forma
la mia personale ricchezza. Al Jazz sono arrivato attraverso il
blues. Uno dei primi dischi che ho avuto è stato “Deep in the
blues”, James Cotton con il quartetto di Charlie Haden. Da li, ho
ascoltato esponenzialmente molte cose, tra cui cantastorie come
T-Bone Walker, Willie Dixon, Josh White, Ray Charles, Skip James etc.
Ovvero, l'altra parte degli anni '40. Il Jazz è una trasformazione
continua. Basta pensare a Duke Ellington, da “C” Jam Blues alle
Suites fino ai concerti di musica sacra. Non saprei dare definizioni
e neanche credo sia possibile in poche righe. So che la parte
“classica” del jazz, ovvero i primi 60 anni del 1900, è a nostra
disposizione per essere studiata e verrà rivalutata in pieno nel
prossimo secolo. Credo che troveremo sempre un disco “classico”
che non abbiamo, mentre qualcuno che non conosciamo starà suonando
cose pazzesche per un pubblico al di la da venire
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